
UNA PRESENZA ITINERANTE E COSTANTE NELLA STORIA DELLA CITTÀ.
Il Seminario dalle origini ad oggi
di don Fabio Besostri
Le istruzioni del Concilio di Trento
Il 5 luglio 1563 il Concilio di Trento con il documento Cum adolescentium aetas invitava le diocesi ad aprire una casa nella quale raccogliere quei giovani che intendevano avviarsi al sacerdozio, per fornir loro una formazione spirituale e culturale adeguata. Queste case venivano indicate come Seminarii, cioè “vivai”.
In precedenza, la formazione dei futuri preti avveniva con modalità diverse: vi erano scuole gestite dal vescovo o dai canonici della cattedrale; in alcuni casi un maestro, pagato dagli stessi studenti, dettava lezioni di teologia e diritto canonico, come si usava nelle università, oppure, dove esisteva la facoltà di teologia, i futuri preti ne frequentavano i corsi. I giovani spesso erano accolti in casa da qualche parroco, che poi li presentava al vescovo come candidati agli ordini sacri. Il Seminario, almeno nelle intenzioni dei padri conciliari, avrebbe dovuto offrire una formazione solida, dottrinalmente sicura e omogenea a tutti i suoi alunni, come avveniva già, ad esempio, nei collegi dei Gesuiti a Roma e altrove.
I padri conciliari indicavano anche le condizioni per l’ammissione nei Seminari: giovani di almeno 12 anni, figli legittimi, capaci di leggere e scrivere e con un’indole che lasciasse presagire la scelta dello stato sacerdotale. Il Seminario era destinato a diventare una istituzione globale, dove cioè il giovane veniva formato con scarsi contatti esterni, dal momento che tutto veniva organizzato all’interno della struttura stessa, compresa la scuola. Il Concilio indicava un modello che prevedeva per la formazione al sacerdozio tre veri e propri pilastri, che sarebbero rimasti come elemento di riferimento fino al secolo XX: la pietà, lo studio e la disciplina.
Ippolito de Rossi e Sant’Andrea dei Reali
Il vescovo di Pavia Ippolito de Rossi fu uno dei primi a seguire le prescrizioni conciliari, poiché il Seminario risulta già attivo nel settembre del 1564. La prima sede, provvisoria, fu presso la Cattedrale: nel 1615 fu acquistato il monastero di Sant’Andrea dei Reali (tra via Cavallotti e il vicolo Stilicone), già di proprietà delle monache di Santa Maria alle Caccie. Il vescovo destinò al seminario i redditi di una dozzina di benefici ecclesiastici e impose una tassazione a tutte le parrocchie ma il problema economico travaglierà il seminario per lungo tempo, a causa della esiguità delle rendite e delle difficoltà della loro riscossione.
La comunità era formata da una ventina di giovani, affidati a un “maestro”, cioè il rettore, che ne curava la formazione culturale e spirituale, celebrava per loro la Santa Messa quotidiana, li guidava nelle pratiche di pietà e ne si occupava praticamente di ogni loro necessità, fino ad accompagnarli anche nella passeggiata ricreativa. Nonostante la presenza di una facoltà di teologia presso l’Università, gli studi preparatori avvenivano all’interno del Seminario a cura del rettore e poi di un ristretto numero di docenti, mentre per quelli teologici ci si rivolse ben presto agli istituti degli ordini religiosi presenti in città.
Dalla fine del seicento a metà settecento
Negli anni il numero dei seminaristi crebbe lentamente: erano 24 nel 1662, 27 nel 1676, 46 alla fine del secolo e 60 agli inizi del Settecento. Si trattava sempre di numeri assolutamente sproporzionati alle dimensioni della Diocesi, che a quel tempo contava quasi duecento parrocchie, e si stendeva su ben tre stati, la Lombardia spagnola e poi austriaca, il ducato di Parma e Piacenza e il Piemonte, poi regno di Sardegna.
Nei primi anni del Settecento il vescovo Giacomo Antonio Morigia dedicò grande cura al seminario, al quale diede un nuovo regolamento, nel quale sono presenti intuizioni destinate a influenzare a lungo l’iter formativo e la vita comunitaria. Anche i successori, Agostino Cusani e Francesco Pertusati si occuparono attivamente del loro Seminario: ad esempio Pertusati istituì la figura del direttore spirituale interno, mentre in precedenza i seminaristi ogni mese si recavano per il sacramento della Penitenza presso i padri barnabiti di Santa Maria di Canepanova. Oltre alla Messa quotidiana e alla Confessione mensile, i seminaristi recitavano ogni giorno l’Ufficio della Beata Vergine e le litanie, e facevano un quarto d’ora di meditazione al mattino e l’esame di coscienza serale. Oltre alle materie umanistiche e teologiche, particolare importanza aveva lo studio del canto gregoriano e della polifonia sacra in voga all’epoca.
Il Seminario Generale a San Tommaso
«Alla vigilia delle riforme teresio-giuseppine. scrive in un suo approfondito studio il prof. Xenio Toscani, il seminario di Pavia si presenta in sviluppo […] i chierici sono vicino s 80, un terzo del totale diocesano, e i vescovi premono quanto più possibile perché la formazione sacerdotale avvenga in Seminario»: ed è proprio con il 1771 che inizia il periodo più difficile per il Seminario pavese. La politica ecclesiastica asburgica intendeva controllare assai da vicino la vita della Chiesa nei suoi domini, e ciò comportava una vigilanza minuziosa sulla formazione del clero così come su molti altri aspetti della vita degli ecclesiastici e nella pratica pastorale. Maria Teresa impose che gli studi nei seminari della Lombardia austriaca fossero sottoposti alla supervisione della Regia Università di Pavia, dove insegnavano gli esponenti più famosi del giansenismo e del giurisdizionalismo italiano ed europeo (correnti di pensiero teologico e politico che volevano la completa soggezione della Chiesa al sovrano e la riforma del culto e della prassi pastorale secondo il razionalismo illuminista). I docenti dei Seminari dovevano essere laureati a Pavia, e seguire nel loro insegnamento le linee e i programmi dettati dalla facoltà teologica pavese. Nel 1786 poi Giuseppe II abolì i corsi filosofici e teologici in tutti i Seminari lombardi, e concentrò tutti i seminaristi “maggiori” presso il Seminario Generale, collocato nell’ex convento domenicano di San Tommaso. Anche i seminaristi pavesi furono obbligati, per la loro formazione teologica, a risiedere nel Seminario Generale, mentre i corsi di grammatica, umanità e retorica erano ospitati nella Casa degli Ordinandi, gestita dai Preti della Missione di san Vincenzo de’ Paoli, presso la chiesa di San Giacomo e Filippo.
Il periodo napoleonico
In questo periodo il vescovo Bartolomeo Olivazzi, su pressione del re di Sardegna, dovette aprire per i chierici della parte piemontese della diocesi un secondo Seminario, a Valenza (Alessandria), che continuò la sua attività fino al 1796, quando fu requisito dai militari francesi, per essere infine soppresso da Napoleone nel 1809.
Alla morte di Giuseppe II (1790) il Seminario Generale fu chiuso, e il vescovo Giuseppe Bertieri, succeduto nel 1792 all’Olivazzi, grazie ai suoi buoni rapporti con la corte viennese poté riaprire l’antica sede di Sant’Andrea dei Reali; ma furono proprio le truppe austriache a requisire nuovamente il Seminario nel 1795 e a usarlo come caserma e magazzino. Le guerre napoleoniche e gli sconvolgimenti politici che ne seguirono aggravarono la situazione: i seminari lombardi, compreso quello di Pavia, rimasero chiusi per una decina d’anni. I seminaristi alloggiavano a pensione presso alcune famiglie e andavano a lezione nelle abitazioni dei docenti.
Il movimentato ottocento e l’arrivo alla Pusterla
La situazione migliorò sotto l’episcopato di Paolo Lamberto D’Allegre, nominato vescovo di Pavia nel 1805: il Seminario riebbe la sua vecchia sede, che pur mostrava tutta la sua inadeguatezza e vetustà, e restarono senza effetto gli sforzi messi in campo dal vescovo per ottenere (senza successo) prima l’ex Collegio Germanico Ungarico (oggi è il Collegio Cairoli), poi l’ex Canonica dei Lateranensi, a San Pietro in Ciel d’Oro. D’Allegre comunque riordinò gli studi teologici e diede un nuovo regolamento al Seminario, ma si trovò a dover far fronte a una situazione economica assai difficile, con lo smembramento della Diocesi (che passò da 188 a 71 parrocchie) e l’incameramento da parte dello stato cisalpino e napoleonico delle rendite ecclesiastiche non destinate ai sacerdoti in cura d’anime, cioè proprio quelle che formavano gran parte delle entrate economiche del Seminario. Si ebbe così una costante diminuzione del numero dei seminaristi e delle ordinazioni sacerdotali (ad esempio, 14 ordinazioni sacerdotali tra il 1813 e il 1816, a fronte di 55 decessi). Il vescovo D’Allegre ebbe però a cuore il suo Seminario tanto da nominarlo erede di due terzi del suo patrimonio. La donazione consentì al suo successore Luigi Tosi di dare una svolta significativa alla situazione: grazie ai buoni rapporti con Vienna, dove nel frattempo era mutata la politica ecclesiastica, Tosi riuscì a ottenere l’ex Canonica dei Lateranensi, che per un quarantennio fu la sede ideale per il Seminario: situata in città ma decentrata, con un edificio ampio e luminoso circondato da ampie ortaglie, ospitò un numero crescente di alunni, non solo seminaristi ma anche esterni, fino al numero di 100. Tosi rielaborò il Regolamento, arricchendo l’offerta formativa e ampliando il numero dei docenti sia dei corsi di umanità che di filosofia e teologia; ottenne dal governo l’assegnazione di numerosi benefici vacanti per incrementare il patrimonio dell’istituzione, e lasciò, alla sua morte (1845) un terzo delle sue sostanze al Seminario.
Purtroppo solo tre anni dopo la sua morte iniziò un nuovo periodo difficile: nel 1848, mentre la sede episcopale era ancora vacante, le truppe austriache ripresero possesso dello stabile e lo trasformarono in ospedale militare. I seminaristi pavesi risentirono del clima generale e in alcuni casi parteciparono attivamente ai moti risorgimentali del ’48, subendo poi ritorsioni con il ritorno in città degli austriaci. Nel 1850 giunse a Pavia il nuovo vescovo, Angiolo Ramazzotti, milanese, che a Pavia aveva studiato Legge tra il 1819 e il 1823, una figura di spicco per lo zelo apostolico, al quale si deve la fondazione dell’Istituto delle Missioni Estere (oggi PIME). il Seminario fu nuovamente requisito nel 1854-1856 per essere adibito a ospedale per i colerosi, mentre i seminaristi venivano ospitati a Palazzo Botta. Ma nel 1851 il vescovo ne aveva assunto direttamente la conduzione e aveva rinnovato completamente il corpo docente, per eliminare qualsiasi influenza di stampo giansenista; trasferì nel palazzo vescovile il Ginnasio istituito da Tosi per renderlo più accessibile ai giovani della città, e istituì un Collegio Vescovile che fungesse da Seminario minore e vivaio di vocazioni sacerdotali. La sua nomina a patriarca di Venezia nel 1858 limitò la portata delle sue innovazioni, e il Seminario ebbe a soffrire una nuova occupazione nel 1859 da parte delle truppe austriache prima, poi francesi e infine piemontesi. Docenti ed alunni furono accolti, tra mille disagi, nel palazzo vescovile. Ma soprattutto fu il clima culturale a creare una situazione difficile per la vita del Seminario, riducendo drasticamente il numero dei suoi alunni (scesi a una trentina) in coincidenza con una lunghissima vacanza della sede, protrattasi fino al 1871. Fu grazie a Vincenzo Gandini, già docente e rettore del Seminario sin dal tempo di Tosi, vicario capitolare e paziente negoziatore, che il Seminario ebbe, alla fine, la sua sede. Gandini riuscì a rivendere lo stabilimento di San Pietro in Ciel d’Oro al Demanio militare e ad acquistare quindi l’ex monastero della Pusterla. L’edificio era in stato di grave degrado e bisognoso di massicci interventi di restauro. I seminaristi poterono entrarvi solo nel 1867; pochi anni dopo, nel 1871, accolse anche il vescovo Lucido Maria Parocchi, impedito a prendere possesso della sua sede dalle turbolente vicende politiche del tempo. Parocchi non fu però solo un ospite: la sua costante presenza gli permise di conoscere uno per uno i suoi chierici, di seguirne attentamente la formazione culturale e spirituale, e pose le basi per l’azione del suo successore, Agostino Gaetano Riboldi, eletto vescovo di Pavia nel 1877, il quale diede al Seminario non solo un nuovo regolamento, ma una impostazione assolutamente innovativa dal punto di vista didattico. Nel Seminario insegnavano alcune tra le menti più brillanti della diocesi, un nome fra tutti: Pietro Maffi, divenuto in seguito Arcivescovo di Pisa. Numerosi docenti divennero vescovi o furono comunque figure di spicco del panorama culturale italiano (Rodolfo Maiocchi, Anastasio Rossi, Giovanni Cazzani, Ferdinando Rodolfi, Francesco Magani). L’impronta data da Riboldi alla Diocesi e al Seminario rimane evidente fino al periodo seguito al Concilio Vaticano II, di volta in volta reinterpretata dai rettori che si sono succeduti in questo arco di tempo, come Antonio Poma, Luigi Maverna, Paolo Magnani: ognuno di essi ha saputo tener vivo uno stile tutto “pavese” di formazione sacerdotale e nel tempo stesso integrarvi le istanze di rinnovamento che di volta in volta sono emerse dal confronto continuo e necessario con l’evoluzione della cultura e della società.